QUESTION NUMBER 2

Rispondiamo alla seconda delle questioni che abbiamo ricevuto dalla Grecia questa in particolare sull’economia di guerra:

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QUESTION NUMBER 2:

Questa pandemia -scoppiata dopo più di dieci anni di crisi capitalistica duratura e di politiche di massacro sociale/di classe- ha fatto venire a galla, in particolare per i sistemi sanitari nazionali e i loro lavoratori-lavoratrici, tutte le conseguenze sociali devastanti del “capitalismo privato” degli ultimi quarant’ anni di egemonia della “globalizzazione neoliberista” e dei dogmi dei “liberi” mercati internazionali. Ora, con il mondo intero sotto assedio, con aeroporti chiusi e le frontiere serrate, con la produzione quasi bloccata e i centri commerciali evacuati, presidenti e primi ministri, banchieri e amministratori delegati, finanzieri ed azionisti “sembrano come rileggere Keynes scoprendo l’“innocenza” dello stato-nazione-imprenditore. Per ora, tutte le contradizioni, gli interessi e le strategie diversificate degli stati membri dell’ Unione Europea hanno fatto vedere in modo chiaro il fatto che l’Εuropa -infatti- non è la casa dei popoli. Le immagini con gli aiuti arrivati dalla Cina e dei blocchi di arrivo di materiale sanitario dalla Germania hanno creato un certo imbarazzo a tutti quelli/e che sventolavano da anni la bandiera di un europeismo “di democrazia, solidarietà e rispetto dei diritti umani”.  Dall’altra parte, sempre piùspesso analisti ed propagandisti di regime ci ricordano che il mondo si trova in una fase di economia di guerra e l’ unica certezza è quella che dice “niente sarà come prima”. Che ne pensate?

 

Ad ogni modo, qualunque sia l’origine del Covid 19, l’aspetto più sconvolgente è il linguaggio da tempo di guerra che è diventato subito virale nei mass media di regime. Espressioni da caserma come “siamo in prima linea sul fronte” o “omaggio agli eroi di guerra” sono state ripetute all’infinito, insieme al ritorno di una retorica patriottarda fuori tempo e agli inni nazionali sui balconi, anche questi durati poco, di fronte al precipitare della situazione sanitaria. Le strade deserte hanno reso l’idea di una situazione di coprifuoco che, fino ad un certo punto, ha finito per oscurare i termini scientifici dell’evoluzione della pandemia e delle possibili soluzioni di prevenzione e terapia. Non si tratta qui di mettere in discussione alcune misure necessarie messe in campo, come l’uso di mascherine, la quarantena, il distanziamento fra le persone, la chiusura dei locali pubblici e la limitazione delle relazioni sociali quanto l’inserimento di queste misure entro una cornice che richiama la simulazione di una situazione di guerra.

Anche se poi, alla fine, i dati reali sulla pandemia, sul suo andamento ciclico costituito da una fase ascendente, un plateau e una fase discendente per una durata complessiva di circa tre mesi, sulle misure di prevenzione mediante un uso generalizzato dei tamponi, sulle possibili terapie, sul vaccino specifico, sul potenziamento della medicina del territorio, sulla necessità di finanziare adeguatamente gli ospedali pubblici e la ricerca in campo sanitario hanno finito per prendere il sopravvento.

Per arrivare ora agli aspetti economici della vicenda coronavirus, alcuni fenomeni possono far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra. Per esempio la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori, ma si tratta, in questo caso, di fenomeni molto limitati, mentre la produzione di armi (quelle vere) è tranquillamente continuata, anche nell’emergenza, come per gli F35 alla Leonardo di Cameri. Niente di paragonabile con l’autarchia dei tempi di guerra naturalmente, caso mai si tratta oggi della interruzione di filiere produttive multinazionali, risultato della divisione internazionale del lavoro capitalistica affermatasi negli ultimi decenni, impropriamente definita “globalizzazione”, e da cui è difficile, o improbabile ritornare a una economia nazionale auto centrata.

Adesso è comparso un altro fenomeno tipico dell’ “economia di guerra”: la speculazione sui generi di prima necessità. Il prezzo della farina di grano duro  (quello per la pasta) è raddoppiato, mentre il prezzo dello stesso grano duro è aumentato di un solo euro, passando da 25 a 26 euro al quintale (un 4% scarso). A quando l’inizio del mercato nero?

Un altro fenomeno che può richiamare una economia di guerra è la limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico. Tutto ciò comporta naturalmente un aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento che delle emissioni dei titoli di stato. Certo non siamo ancora ai crediti di guerra obbligatori o alla raccolta di oro per la patria, anche perché il mercato finanziario è diventato così automatico, veloce e ramificato da rendere estremamente difficile una sua regolamentazione da parte di una qualsiasi autorità nazionale. Qualche probabilità in più avrebbero gli eurobond, ammesso che questa entità sfuggente chiamata Unione Europea, o, per meglio dire, la sua Banca Centrale riuscisse a trovare una mediazione ragionevole fra i vari appetiti nazionali. Il tutto si tradurrà comunque in una crescita esponenziale dell’indebitamento, sia pubblico che privato. Ma i debiti alla fine vanno comunque ripagati.

Nella vicenda dell’emergenza da Covid 19 hanno riacquistato visibilità alcune variegate tendenze autodefinitesi “di sinistra” che riprendono le teorie keynesiane per l’uscita dalla crisi capitalistica: un neokeynesismo di ritorno. Le politiche keynesiane furono applicate negli Stati Uniti durante la grande depressione degli anni 30, con le riforme introdotte da Roosevelt, e in altri stati capitalistici europei con altre forme e modi. Esse consistono sostanzialmente in un intervento massiccio dello stato nell’economia al fine di creare una domanda aggiuntiva, attraverso imponenti opere pubbliche, e riassorbire così anche la dilagante disoccupazione. Naturalmente queste misure operano un tamponamento sociale degli effetti della crisi, nella prospettiva di una ripresa dei profitti capitalistici che può avvenire attraverso la concentrazione dei capitali e la riduzione dei salari operai. L’efficacia di queste politiche non è comunque sicura, tanto è vero che dopo un breve periodo di parziale ripresa esse sfociarono in un “keynesismo di guerra”, quando, durante la seconda guerra mondiale, quasi tutta la produzione era comprata dallo stato, dai carri armati ai bottoni delle divise.

Nel secondo dopoguerra, durante la trentennale golden age capitalistica, in cui comunque il debito pubblico era sceso ai minimi storici, le politiche keynesiane si identificarono in alcuni paesi dell’Europa occidentale, fra cui l’Italia, in un sistema di “economia mista”, stato/privato, e nel welfare state, ovverosia nella gestione da parte dello stato di una parte consistente del salario operaio, indiretto o sociale, a fronte del versamento nelle casse statali di ingenti contributi sociali da parte dei lavoratori dipendenti o, per loro conto, dai datori di lavoro. Questo sistema è stato comunque ridotto al minimo, o quasi smantellato, sotto i colpi della crisi iniziata negli anni 70, a forza di privatizzazioni e di delocalizzazioni industriali in paesi a basso costo del lavoro. Dunque le tendenze neokeynesiane, che presentano però una pericolosa convergenza con le tendenze “sovraniste di destra”, condividono con queste ultime un alto tasso di improbabilità, vista la predominanza assunta negli ultimi decenni dalle grandi multinazionali “senza patria” e dal capitalismo finanziario internazionale sugli stati nazionali.

Inoltre sembra, come sostiene Paul Mattick in un suo articolo del 1940, che anche la guerra abbia perso la sua capacità di risoluzione della crisi capitalistica. Dice Mattick: “Nell’andamento ciclico del modo di produzione capitalistico una rapida accumulazione di capitale porta di conseguenza alla depressione e alla crisi, mentre il meccanismo stesso di risoluzione della crisi porta a una nuova fase di accumulazione e sviluppo. In maniera direttamente conseguente un periodo di pace capitalistica porta alla guerra, e la guerra riapre a un nuovo periodo di pace. Ma cosa succede se la depressione economica diviene permanente? Anche la guerra seguirà lo stesso andamento e quindi la guerra permanente è figlia della depressione economica permanente.” Mattick porta poi alle estreme conseguenze la sua analisi quando afferma: “Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica”. Ora la guerra permanente si è svolta finora in aree capitalistiche semiperiferiche, come il Medio Oriente, l’Africa o l’Afghanistan, con l’eccezione del conflitto alle porte dell’Europa in Donbass/Ucraina, per cui sorge il sospetto che la pandemia da coronavirus possa costituire un surrogato della guerra permanente che coinvolge invece i paesi capitalisticamente sviluppati. Un surrogato che è contemporaneamente troppo e troppo poco: troppo per i sacrifici sociali che comporta e troppo poco per risolvere la crisi capitalistica. Alla fine di questa storia non ci sarà una ripresa economica, ma neanche un crollo del capitalismo ma, probabilmente una accelerazione dei processi di crisi già in corso.

Panetteria Occupata – Milano 11 aprile 2020

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