19 ottobre: La casa è un bisogno basta speculazione
14 ottobre: Manifestazione per la Palestina
sabato 14 ottobre 2023 migliaia di persone, con determinazione rabbia e gioia, hanno attraversato le vie di Milano in una imponente manifestazione a sostegno della Resistenza del popolo Palestinese, contro l’aggressione di Gaza, per la fine dell’occupazione sionista… a fianco della Resistenza!
riportiamo l’intervento della Panetteria:
In occasione dell’operazione “MARGINE DI PROTEZIONE”, iniziata nel luglio 2014, il
presidente del parlamento sionista Feiglin, scriveva a Netanyahu:
“Definizione dei compiti: Conquista di tutta la Striscia di Gaza e annientamento di tutte le
forze combattenti e dei loro sostenitori.
“Definizione dell’obiettivo strategico”: Per trasformare Gaza in Jaffa, una città israeliana
fiorente, con un numero minimo di civili ostili.
“Definizione di etica di guerra”:
Israele deve effettuare le seguenti operazioni:
l’IDF (esercito israeliano) designa alcune aree aperte al confine del Sinai, adiacente al
mare, in cui la popolazione civile sarà concentrata, lontano dai centri abitati che vengono
utilizzati per i lanci e i bombardamenti. In queste aree saranno stabiliti accampamenti di
tende, come rilevanti destinazioni di emigrazione. – La fornitura di energia elettrica e di
acqua per le zone già popolate verrà disconnessa………ecc. Coloro che insistono sul
soggiorno, se possono dimostrare di non avere alcuna affiliazione con Hamas, saranno
tenuti a sottoscrivere pubblicamente una dichiarazione di fedeltà ad Israele e ricevere una
carta d’identità blu simile a quella degli arabi di Gerusalemme est. Quando il
combattimento finirà, la legge israeliana sarà estesa all’intera Striscia di Gaza, gli abitanti
sfrattati dal Gush Katif saranno invitati a tornare ai loro insediamenti e la città di Gaza ed
i suoi sobborghi, sarà ricostruita come una vera città israeliana turistica e
commerciale…….ecc.”.
Piano che 9 anni fa ebbe come conseguenza per i Palestinesi 2.300 morti dei quali più di
500 bambini, oltre a 11.000 feriti, un’operazione definita dai sionisti “falciare il prato” e
nessuno degli ipocriti Paesi Occidentali ha mai espresso una minima preoccupazione
come quella che riempie le colonne dei giornali, le bocche dei politici, attualmente. Già,
perché la grande sofferenza del popolo palestinese poteva essere liquidata con la frase:
“si tratta di una rappresaglia israeliana” provocata dalla violenza dei “terroristi”
palestinesi.
L’ipocrisia dell’Occidente è anche ben rappresentata dalla Comunità Europea che dopo il
7 ottobre ha subito deciso di congelare e tagliare tutti gli aiuti ai palestinesi, aiuti garantiti
a suo tempo come impegno per implementare gli accordi di Oslo: 689milioni di euro,
nonché tutti i finanziamenti per i progetti della cooperazione. Solo la Spagna si è
pronunciata contro.
Decisione che fa il paio con la dichiarazione dei cinque governi di Gran Bretagna, Francia,
Usa, Germania e in coda, come sempre, quello italiano, di assumere un impegno di
sostegno e appoggio all’entità sionista che riguarda tutti gli ambiti: politico, economico e
bellico.
Ma quello che vediamo oggi arriva da lontano, dagli accordi segreti di Sykes-Picot del
1916 quando Francia ed Inghilterra frammentano e si spartiscono le province arabe del
Machrek e nel 1917, con gli accordi di Balfeur e l’ occupazione inglese della Palestina
appare chiaro lo scopo: garantire la nascita di un “focolare nazionale per il popolo
ebraico.
Di cosa ci stupiamo se i Palestinesi da 75 anni adottano ogni forma di resistenza,
compresa quella armata, vessati da entità, proclamata Stato, rigidamente strutturato,
nato, a tavolino, da accordi coloniali europei nel 1948 che possiamo definire un
colonialismo d’insediamento, che oltre alla rapina delle terre, dell’acqua, delle risorse ha
pianificato l’espulsione della popolazione autoctona impedendone il ritorno?
Ogni popolo ha diritto di decidere forme e modi in cui lottare, dobbiamo liberarci dalla
convinzione impregnata e frutto di una cultura coloniale, che crede di poter giudicare e
stabilire fino a che punto “i dannati della terra” possono osare liberarsi, solidarizzando
fintanto che lanciano pietre mentre i soldati gli sparano e le bombe gli cadono in testa e
criminalizzandoli se non, addirittura, prendendo le difese dell’occupante e il suo “diritto
alla difesa”- quando, oltre alle pietre, rispondono all’enorme armamentario di morte
utilizzato quotidianamente contro di loro, con strumenti offensivi e più potenti delle
pietre.
Ma, a quale diritto alla difesa di Israele ci si appella?
Lo stesso utilizzato per l’operazione piombo fuso, quello che ha permesso i massacri di
Sabra e Chatila o che giustifica le detenzioni amministrative, le carcerazioni di minorenni,
la stella di David impressa con uno strumento tagliente sul volto di un detenuto
palestinese sotto interrogatorio, le violenze sulle donne, i 53 minorenni uccisi
dall’esercito in Cisgiordania dall’inizio dell’anno, la distruzione degli ulivi, degli alberi da
frutta, delle case, i chekpoint, i giornalisti feriti o uccisi, le continue aggressioni dei
coloni, il lager a cielo aperto di Gaza, l’utilizzo del fosforo bianco, l’umiliazione quotidiana
a cui i palestinesi devono sottostare?
Ma abbiamo forse bisogno di ulteriori immagini per sentirci in pace con la coscienza,
oppure di precisare che siamo contro ogni violenza dimenticando quella che
quotidianamente si vive per mano dei padroni, dell’imperialismo, del capitalismo anche
nei nostri territori?
L’esperienza della Resistenza in Italia dovrebbe aver insegnato che non è possibile
accettare acriticamente tutto quello che il nemico interno ed esterno dice, come quando
venivano etichettati gli eccidi di massa come “reazione/rappresaglia” alle operazioni
partigiane, oppure quando appendevano ai corpi dei partigiani impiccati cartelli con
scritto “Actung banditen”. Per questo dobbiamo cercare di analizzare e contestualizzare
sempre le situazioni, ponendoci la domanda verso chi e cosa è esercitata una reazione,
che radici ha, quale lo scopo.
Non si può essere equidistanti di fronte ad una violenza coloniale che ha oppresso un
popolo che resiste da più di mezzo secolo ad ogni tipo di vessazione, criminalizzazione,
sopruso e distruzione, che ha visto togliersi la terra, il lavoro, il futuro, di cui si vorrebbe
negare la stessa esistenza.
Non si possono utilizzare due metri e due misure: scandalizzarsi e usare strumentalmente
i morti di una parte, quella dell’oppressore, quando quei morti sono la conseguenza della
rabbia, della violenza, delle morti, delle carcerazioni, delle lacrime versate e delle umiliazioni subite per anni ed anni da un popolo… grazie anche all’indifferenza di chi oggi
si indigna.
Nessuno gioisce davanti alla brutalità della guerra, ma è ipocrisia non riconoscere che di
queste morti sono diretti responsabili i paesi occidentali, il capitalismo USA che accorre
prontamente in difesa del suo alleato sionista, perché sulla pelle dei palestinesi, si gioca,
nello scenario geo-politico di guerra tra blocchi, il dominio nell’area medio-orientale e i
palestinesi rappresentano un problema, perché ancora non domati, una spina nel fianco
da eliminare.
Responsabilità che vivono nello sdoganamento di Israele, come “Stato democratico”, con
cui fare affari, accordi economici di cooperazione per progetti di milioni di euro con istituti
di ricerca o universitari, imprese industriali, per sistemi di produzione energetica innovativi ad alta efficienza; tecnologie dell’informazione e della comunicazione, comunicazioni di dati, software e cybersicurezza; spazio e osservazione della terra… i cui scopi, spacciati per miglioramenti in campo civile, sono in realtà largamente utilizzati per rafforzare l’armamentario militare e di controllo.
Quello che oggi possiamo fare, è lottare, qua, contro il capitalismo nostrano
riprendendoci tutto quello che è stato tolto (scuola, sanità, dignità, case e lavoro), lottare
contro un’ideologia che mistifica e avvelena la verità, portando con noi anche la bandiera
della Palestina, quale simbolo di resistenza e di lotta, messaggio di speranza per tutti gli
oppressi, per dare un segno chiaro su cosa intendiamo per “internazionalismo”.
In questo inizio di ottobre si è creato uno spartiacque ed è necessario capire da che parte
stare … per noi sicuramente non alla tavola del sionismo, dell’imperialismo e del
capitalismo, fieri e solidali con un popolo che, ancora una volta, si ribella all’oppressore
per riconquistarsi la vita e la libertà … Per loro stessi e per tutti noi.
Stand up! E’ tempo di lottare – sulle prossime mobilitazioni
I popoli in rivolta scrivono la storia. Intifada fino alla vittoria!
Siamo vicini e sosteniamo la lotta del popolo palestinese, la sua eroica Resistenza. Questa lotta è anche la nostra lotta. Partecipiamo alle iniziative di sostegno e solidarietà che in questi giorni si stanno organizzando nelle diverse città italiane tra cui anche Milano. Rompiamo il muro della disinformazione.
Pubblichiamo il comunicato prodotto dai Giovani Palestinesi d’Italia sull’insurrezione popolare del 7 ottobre:
I POPOLI IN RIVOLTA SCRIVONO LA STORIA. INTIFADA FINO ALLA VITTORIA!
2 ottobre: presidio per la liberazione di Khaled El Qaisi
LUNEDI 2 OTTOBRE SOTTO LA SEDE RAI DI CORSO SEMPIONE A MILANO DALLE ORE 18
LIBERIAMO KHALED!
Il 31 agosto scorso Khaled El Qaisi – cittadino italiano e palestinese, studente presso l’università Sapienza di Roma e traduttore appassionato di documenti storici palestinesi – è stato arrestato dalle autorità israeliane al valico di Allenby, tra Cisgiordania occupata e Giordania, senza che gli fosse contestato alcun reato, né tanto meno fosse formulata alcuna accusa.
Khaled si trovava ad attraversare detto valico in compagnia della moglie (italiana di professione insegnante) e del loro figlio di 4 anni.
Khaled è cresciuto neibterritori palestinesi fin dalla nascita e per tutta l’adolescenza, successivamente trasferendosi in Italia con la madre e il fratello, qualche anno dopo il decesso per malattia di suo padre Kamal El Qaisi, stimato sindacalista palestinese che ha contribuito per decenni alla crescita consapevole di una Palestina libera.
Dall’arresto del 31 agosto scorso Khaled è stato trasferito nel carcere di massima sicurezza di Petah Tikwa e sottoposto a continui interrogatori, in assenza totale di accuse formali, senza il sostegno legale di un difensore che potesse e possa affiancarlo, in spregio dei più elementari diritti alla difesa della persona. Uniche eccezioni al regime di totale isolamento (sofferto per le prime due settimane) e all’assenza di contatti con l’esterno (compresi i familiari più stretti) che perdura da circa un mese, sono rappresentate da due visite concesse al Console italiano presso il Consolato di Tel Aviv, e da due soli e brevi incontri con il proprio legale arabo-israeliano. Incontri dai quali, tra l’altro, i familiari e l’avvocato italiano di Khaled non hanno potuto apprendere nessuna informazione rilevante. Il legale arabo-palestinese, infatti, (così come tutta la stampa israeliana) è vincolato da un gag order, ossia da un ordine di bavaglio, che impedisce la divulgazione anche di quanto accade in sede di udienza. La detenzione è già stata prorogata tre volte e la prossima udienza è fissata per il primo ottobre all’esito della quale entro 48 al massimo 72 ore dovrebbe esserci una decisione delle autorita’ sui motivi del provvedimento del 31 agosto.
In Israele ci sono 967 palestinesi detenuti senza accuse formali. La reclusione è prorogabile di sei mesi in sei mesi per anni, è questa la detenzione amministrativa. Migliaia sono invece i giovani, le donne e gli uomini palestinesi detenuti nelle carceri dell’entità sionista. Sulla detenzione di Khaled è stato steso un velo di silenzio da parte dei mezzi di informazione italiana (giornali e tv etc…) mentre il governo italiano è sempre più allineato con quelli dell’occupante sionista israeliano e legittima questo arresto di un cittadino italo-palestinese. Per portare il nostro sostegno a Khaled, per rompere il muro di silenzio, per ottenere la sua immediata liberazione si stanno organizzando diverse iniziative. In particolare a Roma per Sabato 30 settembre alla sede Rai è stato indetto un presidio mentre qui a Milano un iniziativa simile viene organizzata per lunedi 2 ottobre.
Invitiamo tutt@ a diffondere e partecipare al presidio presso la sede RAi di Milano in Corso Sempione a Milano dalle ore 18
QUI TROVATE IL DOSSIER PRODOTTO DAL COMITATO PER LA LIBERAZIONE DI KHALED EL QAISI – un primo materiale utile per conoscere la situazione di Khaled e per organizzare iniziative di sostegno e solidarietà
29 agosto: MOBILITAZIONE IN RISPOSTA ALLO SGOMBERO DI VIA ESTERLE 15
MOBILITAZIONE IN RISPOSTA ALLO SGOMBERO DI VIA ESTERLE 15
MARTEDI 29 AGOSTO DALLE ORE 18:30
APPUNTAMENTO ALLA ROTONDA DI VIA GIACOSA/VIA PADOVA
Rete per il Diritto all’Abitare – Milano
Appello dall’occupazione abitativa di via Esterle a Milano
Appello in vista dell’imminente sgombero dell’occupazione
abitativa degli ex bagni pubblici di via Esterle a Milano
Oggi, venerdì 25 agosto alle ore 17:00 inizierà una
mobilitazione cittadina a difesa degli abitanti dello stabile
comunale di via Esterle ai quali il Comune ha chiesto di liberare
lo spazio per consegnarlo alla Casa della Cultura Musulmana
che deve iniziare i lavori per la realizzazione della moschea.
Agli abitanti, lavoratori stranieri sottopagati con contratti di
lavoro di breve durata, non è stata proposta alcuna soluzione
abitativa alternativa nonostante da oltre un anno le persone che
abitano nello stabile e la Rete Solidale Ci Siamo avevano chiesto
all’Amministrazione di intervenire per evitare che nessuno
finisse in strada.
Nella città di Milano nessun lavoratore con condizioni simili a
quelle degli abitanti di via Esterle può permettersi di affittare
una casa o una stanza sia nel mercato libero che in quello
calmierato, ma neppure di accedere all’offerta di alloggi pubblici
limitata alle famiglie con minori o alle persone più povere e
fragili.
Per un lavoratore straniero questa condizione è aggravata da una
politica razzista e discriminatoria che impedisce o rende difficile
la regolarizzazione, che favorisce forme di lavoro precario e
sottopagato, che criminalizza l’immigrazione occultando le
proprie responsabilità nello sfruttamento delle risorse dei paesi
di origine di coloro che decidono di migrare.
Questa mobilitazione, con un presidio permanente davanti
all’ingresso dello stabile di via Esterle, vuole essere un segnale
chiaro e determinato di affermazione dei propri bisogni vitali
contro qualsiasi accettazione passiva che ci viene imposta; vuole
portare avanti e estendere il confronto e il lavoro collettivo
iniziato prima dell’estate tra varie realtà cittadine che hanno
costituito una rete per il diritto all’abitare e sottoscritto una
piattaforma di lotta.
Breve cronistoria dei recenti avvenimenti
Negli ex bagni pubblici di proprietà comunale, in disuso da più
di trenta anni, abitano da circa sei anni una quarantina di persone
provenienti perlopiù dall’Africa centrale.
Nel mese di marzo dell’anno scorso (2022) lo stabile è stato
messo a bando per destinarlo a finalità religiose e la gara è stata
vinta dall’Associazione Casa della Cultura Musulmana di via
Padova.
Subito dopo l’uscita del bando, la Rete solidale Ci Siamo, che ha
sostenuto l’occupazione di via Esterle, si è attivata per incontrare
il Comune di Milano al fine di trovare delle possibili alternative
abitative per tutte le persone che lì ci vivono.
I silenzi che sono seguiti alle nostre richieste di incontro e il
segnale dato in occasione dei sopralluoghi in via Esterle, quando
alle comunità religiose interessate al bando è stato concesso di
visionare soltanto la parte dei locali non occupati come se la
parte dello stabile con i suoi abitanti dovesse restare invisibile,
hanno mostrato l’indifferenza del Comune.
Un’ulteriore conferma di questo atteggiamento si è avuta nel
mese di maggio (2022) in occasione di una manifestazione
pubblica davanti Palazzo Marino per chiedere al Comune di non
alienare l’edificio o in alternativa di impegnarsi a trovare
soluzioni abitative alternative. Anche allora nessuno
rappresentate dell’Amministrazione comunale fu disponibile a
incontrare una delegazione di manifestanti.
Così a metà luglio (2022) fu fatto un presidio all’interno degli
uffici comunali di via Larga e ottenuto un primo incontro con
l’Assessorato alla casa del Comune di Milano. Da quel primo
colloquio ne sono seguiti altri, stimolati da altre manifestazioni
che si sono rese necessarie di fronte al ritorno al silenzio da
parte dell’istituzione comunale.
1.
Nel confronto con i diversi assessori e i vari dirigenti tecnici del
Comune è sempre stata presente una delegazione composta da
abitanti e attivisti, che ha ribadito le ragioni alla base di questo
percorso di lotta.
Si è sempre detto che nessuno è contrario a una moschea a
Milano, tanto più che la maggioranza degli abitanti è di fede
musulmana, che nessuno è particolarmente affezionato ai vecchi
e malandati locali di via Esterle, e che la permanenza in quegli
spazi è dovuta principalmente alla mancanza di alternative
abitative valide: trovarsi per strada senza un posto dove vivere
comporta la perdita in un tempo breve del proprio lavoro e
quindi anche dei documenti, in pratica significa tornare indietro
di anni, quando si era appena arrivati in Italia.
La non contrarietà al progetto comunale è stata dimostrata nei
fatti dando disponibilità ad accompagnare una delegazione di
tecnici della Casa della Cultura Musulmana all’intero dello
stabile per effettuare dei rilievi tecnici necessari alla
finalizzazione del bando, precisando che per organizzare quello
ed eventuali ingressi futuri non era necessaria la mediazione
della Questura di Milano che avrebbe spostato la questione dal
tema abitativo a quello dell’ordine pubblico.
2.
Lo scopo degli incontri con l’Amministrazione comunale non
era di chiedere una soluzione caritatevole né un’attenzione
privilegiata ma quello di far prendere atto dell’impossibilità di
accesso alla casa da parte di una gran numero di lavoratori, in
particolare immigrati, con contratti a termine di breve durata,
rinnovati a scadenza, e con salari bassi, di circa ottocento/mille
euro al mese. Non si tratta di un aspetto marginale, ma di un
problema ampio che riguarda la condizione lavorativa e abitativa
di migliaia di persone che sono impiegate in settori strategici
della più importante area metropolitana italiana.
Per questo motivo non è accettabile la criminalizzazione delle
occupazioni abitative che in questi anni hanno rappresentato
l’unica possibilità concreta di avere un tetto sopra la testa, degli
spazi e dei servizi minimi per poter vivere dignitosamente,
lavorare, rinnovare i documenti e mandare soldi alle famiglie nei
paesi di origine.
Una criminalizzazione che era sottesa nell’iniziale chiusura al
confronto da parte dell’Amministrazione comunale e che
lasciava presagire l’ennesimo sgombero a sorpresa che non
avrebbe dato agli abitanti nemmeno il tempo necessario a
riorganizzare la propria vita, a trasportare le proprie cose, a
trovare una nuova sistemazione provvisoria.
Esperienze che abbiamo già vissuto e subito una decine di volte
in sette anni, l’ultima lo scorso marzo (2023) con lo sgombero
dell’occupazione abitativa di via Siusi 12. Nei precedenti
sgomberi come anche in quest’ultimo l’unica soluzione concreta
è stata offerta dalla solidarietà degli abitanti di altre occupazioni
abitative che hanno accolto e ospitato le persone e le famiglie
buttate in strada affrontando così nuove difficoltà.
3.
Nel corso degli ultimi incontri (maggio-agosto 2023) abbiamo
fornito un censimento anonimo degli abitanti di via Esterle che
riportava notizie sui dati anagrafici, la nazionalità, il permesso di
soggiorno, il contratto di lavoro e il reddito medio annuo.
Una documentazione che era già stata inviata, come richiesto nel
primo incontro con l’Assessorato alla Casa (luglio 2022), a
Milano Abitare – l’Agenzia per l’affitto accessibile del Comune
di Milano, che sulla base di questa documentazione ci aveva
comunicato che soltanto coloro che avevano un contratto a
tempo indeterminato o determinato di un anno avrebbe potuto
iscriversi alla suddetta Agenzia per ricevere informazioni sulle
offerte di appartamenti a canone calmierati.
Nell’ultimo incontro avvenuto on line il 14 agosto 2023, in cui
erano presenti Marco Granelli Assessore alla sicurezza,
Lamberto Bertolè Assessore al welfare, Pierfrancesco Maran
Assessore alla casa, insieme a una delegata della vice sindaco
Anna Scavuzzo e a diversi dirigenti delle direzioni Sicurezza,
Casa e Welfare, ci è stato detto che le uniche soluzioni trovate
erano dei posti letto in alcuni pensionati e ostelli/alberghi
individuati dal Comune, di cui però erano certi solo 4/6 posti
presso il pensionato Belloni a 450 euro a persona, e la possibilità
di rivolgersi al Centro di via Sammartini per le persone senza
fissa dimora. Ma da una ricognizione che abbiamo fatto in
queste ultime ore i pensionati proposti dal Comune sono tutti al
completo mentre i costi degli ostelli sono di circa 24-30 euro al
giorno e in molti casi prevedono una permanenza di solo una
settimana.
Senz’altro più rilevante è stata la richiesta, più volte ribadita, di
lasciare vuoto lo stabile di via Esterle entro fine agosto in modo
da consentire l’ingresso dell’Associazione Casa della Cultura
Musulmana dal momento che alla stipula dell’atto di cessione
del diritto di superficie fra i due soggetti, avvenuta il 10 luglio
2023 (ma di cui siamo venuti a conoscenza solo il 31 luglio), il
Comune si è impegnato a consegnare lo stabile libero da persone
e cose entro trenta giorni, e che il periodo successivo al 10
agosto, giorno previsto per la consegna dei locali, rappresenta
una proroga concertata con la Prefettura di Milano.
Rete Solidale Ci Siamo
25 agosto 2023
https://www.facebook.com/profile.php?id=100066640086268
Solidarietà al popolo Palestinese … dal corteo sulla casa del 8 luglio
Riportiamo intervento fatto durante il corteo dell’8 luglio sulla questione abitativa:
In un precedente appello per una lotta di eguaglianza con la richiesta di documenti per tutte/i senza discriminazione, la Rete Solidale “Ci Siamo” scriveva: “ siamo lavoratori e lavoratrici allontanati/e dalle loro famiglie dal disastroso saccheggio colonialista, mandiamo avanti cantieri e magazzini, siamo riders e facchini, puliamo uffici e hotel, mandiamo avanti le cucine, accudiamo bambini ed anziani e ci spezziamo la schiena in campagna. E’ ora di unirci, di far sentire la nostra voce che è la stessa di tutte/i le lavoratrici e lavoratori sfruttati, di mettere fine alle discriminazioni ed ai ricatti.
Parto da questo punto per parlare di un popolo, quello palestinese, che queste condizioni le conosce tutte da più di settanta anni, che vive in parte nella diaspora, nei campi profughi, che si vede negati i diritti più elementari e che è testimone del furto della sua terra, che non ha un’economia propria, espropriato dell’acqua, delle case e della propria storia, costretto ad affrontare la pulizia etnica e la gentrificazione.
Già un concetto che nelle grandi città ed in particolare a Milano che sta subendo lo stravolgimento di tutti i vecchi quartieri popolari, l’espulsione delle fasce di popolazione più deboli, conosciamo bene, ma che anche in Palestina dove Gerusalemme (Al-Quds) è l’esempio più eclatante che si sta verificando da tempo, portato avanti da un sistema coloniale capitalista.
Per comprendere la gentrificazione in questo contesto, bisogna analizzare le tattiche utilizzate dal sionismo e risalire alla filosofia di Theodore Herzl, il fondatore del sionismo, nella quale proclamava “Le terre private delle aree che ci sono state assegnate devono essere confiscate ai loro proprietari. Gli abitanti poveri devono essere rapidamente evacuati dall’altra parte del confine dopo che gli si è assicurato un lavoro nei paesi di destinazione. Gli verrà negato il lavoro nel nostro paese; in quanto ai grandi proprietari terrieri, finiranno per unirsi a noi.”
Istituita più di un secolo fa, questa strategia è il piano ufficiale su cui l’entità sionista ha lavorato a spese dei palestinesi, i residenti indigeni, anche nelle terre su cui l’occupazione non ha il completo controllo.
Molto semplicemente, uno stato espansionista coloniale opera portando dalla sua parte i
capitalisti palestinesi per mantenere sia la forza lavoro, che la popolazione palestinese sotto il suo
dominio.
Una penetrazione che si muove soprattutto con una triplice strategia: mediatica, politica e
militare. Per la parte mediatica, grazie all’uso dei mass media, il sionismo tenta di rendere
accettabili i propri crimini o meglio ancora di negarli, mistificando la realtà ed imponendo una narrazione in cui il sistema di occupazione delle terre palestinesi, il razzismo, le azioni che mirano all’allontanamento della popolazione autoctona, le torture, gli eccidi, sono solo il risultato del perenne tentativo di difendersi dagli attacchi del popolo palestinese.
Abbiamo visto in questi giorni a Jenin dove i sionisti hanno portato avanti un attacco violento alla città ed al suo campo profughi, con migliaia di soldati supportati da 15 ruspe militari che hanno letteralmente “arato” le strade principali della città distruggendo tutta la tubatura dell’acqua e delle varie infrastrutture, con un alto numero di morti “i martiri” come li definiscono i palestinesi e molti feriti alcuni dei quali in condizioni gravi.
Per la parte politica i sionisti hanno tessuto una fitta rete di accordi d’interscambio con i vari paesi, Italia compresa, che non riguarda solo l’aspetto militare o quello dell’esportazione di forme di controllo sociale e repressivo, ma la cooperazione scientifica con le varie Università (in Italia ricordiamo quelle di Torino, di Milano con il Politecnico in primis) per sviluppare programmi di ricerca congiunti. Stessa cosa che avviene in agricoltura e con i tentativi di infiltrarsi anche nelle questioni relative all’acqua, alla desalinizzazione, ecc.
Quindi noi qua cosa possiamo fare in concreto perché non sia solo una dichiarazione di
solidarietà?
LOTTARE per svelare le complicità, boicottare gli accordi scientifici e tecnologici, ma soprattutto lottare contro il capitalismo e l’imperialismo italiano, contro il razzismo. Per tutto questo siamo qui oggi e con le bandiere della Palestina.
8 luglio – Manifestazione “La casa è un bisogno fondamentale ….”
DALLA PALESTINA SULLO SCIOPERO DEI PRIGIONIERI IN DETENZIONE AMMINISTRATIVA
DALLA PALESTINA SULLO SCIOPERO DEI PRIGIONIERI IN DETENZIONE AMMINISTRATIVA
Da una serie di brevi articoli comparsi nei giorni scorsi su HADFNEWS riteniamo
importante riportare queste informazioni, ad un giorno dall’inizio di uno sciopero
della fame che parte dai prigionieri amministrativi ma che ha l’appoggio sia degli
altri detenuti, sia dei familiari e di gran parte della popolazione palestinese.
Già da domenica 11 giugno il Comitato Amministrativo dei Detenuti, emanazione
del Comitato Superiore di Emergenza Movimento Prigionieri che gestirà questa
lotta da loro definita “battaglia”, ha annunciato uno stato di mobilitazione generale
in tutte le carceri in cui sono rinchiusi i detenuti amministrativi, come preparazione
alla partecipazione allo sciopero della fame a tempo indeterminato.
Il comitato ha dichiarato in un comunicato stampa che centinaia di prigionieri
amministrativi scioperano, a partire da domenica 18/06/2023, con lo slogan
“Rivoluzione della libertà – Intifada amministrativa”.
In precedenza, l’organismo dei Prigionieri aveva affermato che dall’inizio di
quest’anno le autorità di occupazione hanno continuato ad espandere il
provvedimento della detenzione amministrativa e per questo motivo il numero dei
detenuti ha superato il migliaio. Ad oggi i detenuti amministrativi sono nei centri di
detenzione delle tre prigioni centrali: Ofer, Negev e Megiddo.
Va sottolineato che, dall’inizio dello scorso anno 2022, i detenuti amministrativi
hanno attuato una serie di misure di lotta, la più importante delle quali è stata il
boicottaggio dei tribunali di occupazione, oltre alla fase di sciopero della fame,
effettuata da 30 detenuti amministrativi ed è durata 19 giorni, tutti passaggi che
fanno parte di una lunga lotta condotta per decenni. Il reato di detenzione
amministrativa, che costituisce uno dei reati più importanti e gravi commessi dalle
autorità di occupazione contro i palestinesi, è aumentato notevolmente dallo
scorso anno, rispetto agli ultimi anni. Le autorità israeliane hanno emesso più di
12.000 ordini di detenzione amministrativa dal 2015, con una percentuale più alta
nell’ultimo anno rispetto ai precedenti, quando il numero di ordini ha raggiunto i
2409 e l’80% dei detenuti amministrativi sono ex detenuti che hanno trascorso
anni nelle carceri dell’occupazione, anche in questo stesso regime di detenzione.
E’ importante ricordare che l’occupazione ricorre alla detenzione amministrativa
nei confronti di coloro contro i quali non è possibile presentare un atto d’accusa,
con il pretesto di avere un “fascicolo segreto” e come misura di “ritorsione”, sulla
base della Legge di emergenza ereditata dal mandato britannico.
Nel corso di una seconda conferenza stampa che si è tenuta nella mattinata di
giovedì 15/6 a Ramallah, il Comitato ha precisato che il numero dei detenuti
amministrativi è arrivato a 1083, di cui 19 bambini e tre detenute, che è il numero
più alto percentuale dal 2003 ed ha ricordato Khader Adnan, assassinato
premeditatamente dall’occupazione, che l’ha lasciato nella sua cella dopo 86
giorni di sciopero della fame, senza assistenza medica.
I partecipanti hanno anche richiamato l’attenzione su una serie di questioni
centrali: 1) quella dei vecchi prigionieri 2) i prigionieri liberati con lo scambio per la
liberazione del soldato Gilad Shalit avvenuta il 19 giugno 2011 (affare Wafaa al-
Ahrar) e l’avvicinarsi del nono anniversario del loro ri-arresto, che cade appunto il
18 giugno 3) il caso del capo prigioniero Walid Daqqa, che sta affrontando gravi
condizioni di salute nella cosiddetta “clinica carceraria” di Ramla.
Le autorità di occupazione mirano, attraverso il reato di detenzione
amministrativa, a minare qualsiasi stato effettivo e ad imporre un maggiore
controllo e supervisione sulla società palestinese nel quadro del regime di
apartheid imposto dall’occupazione a più livelli.
Al termine della conferenza, i partecipanti hanno invitato il popolo palestinese a
partecipare attivamente nel sostenere i prigionieri nella loro battaglia in corso, in
particolare con l’avvicinarsi di quella dei detenuti amministrativi.
Il numero totale di detenuti nelle carceri dell’occupazione è di circa 5000,
comprese 31 donne e 160 bambini.
Canpagna NO al Ponte Ben Gurion
Milano, 18/06/2023