Riportiamo l’intervento di introduzione alla serata di solidarietà con la Palestina con la presenza del regista palestinese Mohamed Alatar da parte di “Campagna contro l’intitolazione a Ben Gurion del ponte di Crescenzago”:
Nel manifesto di indizione di questa serata abbiamo citato una riflessione, che Mohammed ha espresso in una sua intervista:
“Gli unici muri indistruttibili sono quelli nella nostra mente”.
Ecco, crediamo che questa riflessione sia una lente con cui leggere le ragioni e motivazioni di quanto successo il 7 ottobre.
La lotta del popolo palestinese, ci sta insegnando che quel muro, una prigione a cielo aperto, eretto per espropriare terre, acqua, libertà di movimento, lavoro e dignità ad un popolo che, da oltre 75 anni, è sotto il dominio coloniale di Israele che lo vorrebbe cancellare non solo dalla cartina geografica, ma dalla storia, può essere distrutto anche quando di fronte c’è l’esercito più moderno, sofisticato e tecnologico del mondo e l’appoggio gridato o silenzioso della maggioranza dei governi e delle cosiddette democrazie.
Il 7 ottobre non è stato un inizio, ma una tappa, più feroce e cruenta di un progetto di pulizia etnica iniziata e pianificata già nella prima guerra del ’48 dai vertici del sionismo e dell’haganhà, con la cacciata manu militari di 700/800mila palestinesi dalla loro terra (1/2 della popolazione) e venduta massmediaticamente da Israele, in un tentativo di distruzione della memoria storica, come esodo volontario dei palestinesi.
Pulizia etnica continuata nel ’67 con l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, in cui furono cacciati sempre con la forza militare 300.000 palestinesi dai loro territori… altra tappa di un processo che non si è mai fermato in questi 75 anni, ma che ha seguito il piano di priorità che Israele si dava
e che ha significato non solo cacciare i palestinesi distruggendo villaggi, coltivazioni, collegamenti, espropriando terre, ma una penetrazione continua, militare, di insediamenti di coloni, di avamposti, chek point, muri dell’apartheid, oltre a forte repressione e omicidi sistematici.
Da settembre 2000 al 6 ottobre 2023, giorno prima dell’attacco, solo a Gaza sono stati uccisi 7.783 palestinesi, e in tutti i territori occupati, compresa Gerusalemme, sono stati 10.655 i palestinesi ammazzati dall’esercito ma anche dai coloni.
Se si guarda poi la situazione dei detenuti i dati sono esorbitanti: l’ ultimo dato risalente a fine gennaio di quest’anno, parlano di 4.336 palestinesi arrestati nelle prigioni, di 416 nelle mani dell’esercito, di 986 detenuti in via amministrativa, e 292 sempre nelle mani dell’esercito perché entrati illegalmente in Israele per lavorare.
Si può dire, senza essere smentiti, che le uccisioni e le detenzioni sono un’altra forma di pulizia etnica che la politica coloniale sionista utilizza e non dal 7 ottobre.
Cade così il mantra massmediatico del “diritto alla difesa” tanto sbandierato da Israele e fatto proprio da tutte le “democrazie” occidentali e USA, che tenta di capovolgere la realtà trasformando Israele da oppressore in oppresso, da predatore in depredato, da aggressore in aggredito.
Ma quello che Israele sta continuando a mettere in pratica è una guerra di sterminio, utilizzando, in questa fase, l’attacco del 7 ottobre ad opera della resistenza palestinese, come se fosse l’atto primo di uno scontro circoscritto ad un unico soggetto, Hamas, e non espressione della lotta di un popolo, che va avanti da circa un secolo, contro il regime coloniale sionista con chiare connotazioni razziste e classiste, costruito, da accordi a tavolino, dai paesi europei a controllo e salvaguardia degli interessi capitalisti ed imperialisti nell’area medio-orientale.
Dietro l’obiettivo militare dichiarato di far fuori Hamas, sta il vero obiettivo strategico: colpire e terrorizzare la popolazione civile, applicare un terrorismo di Stato per spingere la popolazione ad andarsene, e, come affermato nel 2014 da “politici e i membri dell’establishment della sicurezza, marchiare a fuoco la coscienza palestinese”, affinché ogni palestinese ricordi esattamente chi comanda e non osi opporre resistenza. Si continua ad utilizzare la cosiddetta “Dottrina Dahiya” elaborata dall’esercito israeliano nel 2006 in Libano e utilizzata nelle operazioni successive, che si basa su attacchi sproporzionati anche contro strutture e infrastrutture civili.
I 14.000 palestinesi uccisi, i 2000 dispersi e i 35.000 feriti dal 7 ottobre ad oggi, di cui la maggioranza bambini e giovani (8.176), sono la prova evidente del genocidio che si sta commettendo in terra palestinese.
Quando Israele colpisce ospedali, scuole, abitazioni, infrastrutture, quando impedisce l’approvvigionamento di cibo, acqua, medicinali, sa quello che sta facendo: continua il suo progetto di eliminazione del popolo palestinese, della Palestina stessa, nella speranza di togliere la terra sotto i piedi alla Resistenza ed annientare la lotta di questo popolo.
Quello che Israele sta bombardando e vuole nascondere al mondo è che un popolo sfruttato, umiliato, espropriato della propria terra e di un futuro, trovi nella lotta per la propria liberazione l’unica forma di vita possibile. E lo fa consapevole che quello che sta succedendo non è circoscritto a Gaza, ma a tutta l’area medio-orientale e che gli sviluppi ridefiniranno nuovi assetti geopolitici a livello internazionale.
Questo spiega la strenua difesa del ruolo di Israele, quale testa di ponte dell’imperialismo occidentale per la stabilità e la sicurezza degli interessi e del dominio egemonico europeo, e l’appoggio diretto ed indiretto degli USA e dei paesi europei, Italia in testa, con accordi commerciali ed economici soprattutto di forniture e vendita di armi, la presenza nell’area di circa 1300 soldati, di due fregate a seguito della flotta Usa nel Mediterraneo, di una nave-ospedale da cui possono partire spedizioni lagunari o truppe d’assalto, delle basi (Sigonella) e del Mous, da cui partono droni, aerei da ricognizione e da bombardamento americani.
Quanto avvenuto il 7 ottobre non è stato solo un umiliante smacco al più grande apparato di guerra e, di riflesso, a tutto l’Occidente, ma anche un messaggio ai vicini paesi arabi e al mondo intero. Messaggio che dice che di fronte alla determinazione, all’organizzazione, alla volontà di un popolo, anche l’apparato più spaventoso al mondo può essere travolto e un dominio può essere messo in discussione.
La resistenza palestinese, ha costretto il mondo, rompendo un clima di normalizzazione, a un’attenzione che solo la forza di questa sollevazione poteva generare, e provocato sfidando anche i divieti e la repressione messa in atto dai governi, (Francia, Germania..) una forte ondata solidaristica unita, a volte, a un sentimento anticoloniale, che si è espressa, in molti Paesi ( Marocco, Pakistan, Gran Bretagna, Stati Uniti….), con manifestazioni oceaniche e azioni dimostrative contro gli interessi israeliani e capitalisti (blocco della strada delle armi nei porti di Genova, Salerno,Oakland, California, Barcellona, Tacoma, Soidney, azioni di protesta nei confronti delle multinazionali McDonald’s, Burger king, Carrefou ….)
Al tempo stesso ha generato una forte paura nei governi arabi e occidentali, perché consapevoli che la solidarietà espressa dai proletari nel mondo, potrebbe trasformarsi in opposizione interna contro i propri governi e regimi e ogni prospettiva di fine oppressione, di fine del sionismo e del colonialismo in quell’area, così come in altre parti del pianeta, rappresenterebbe un ostacolo al modello capitalista e al suo dominio.
Del resto, il protagonismo di un proletariato giovanile, per la maggior parte di seconda e terza generazione, estremamente eterogeneo (palestinese, egiziano, marocchino, algerino, libanese, italiano…), proveniente dalle periferie o dai quartieri meno abbienti, che vivono quotidianamente condizioni di sfruttamento, emarginazione, repressione e controllo nei loro territori, che hanno difficoltà a intravedere un futuro, problemi a trovare una casa e ad avere un documento che gli permetta di circolare o essere riconosciuti come cittadini, hanno catalizzato e caratterizzato le piazze con vitalità e forza, lasciando riemergere contraddizioni e speranze in un movimento a venire.
Piazze che hanno risposto no alla propaganda imperialista che avrebbe voluto, così come successo per la guerra USA/Ucraina-Russia, generare uno schieramento a favore dei “valori” atlantici, nel gioco del divide et impera, all’interno di uno scontro di civiltà islamofobico.
Per concludere:
La scelta cosciente e di non ritorno, fatta dalla Resistenza Palestinese pagando un prezzo altissimo in vite umane, è una scelta contro una morte quotidiana. Una scelta, l’unica possibile per ridare dignità alla loro esistenza e a quella di tutti gli oppressi.
Sta a noi, ora e qui, raccogliere questa possibilità che si è aperta e contribuire ad inceppare questo modello predatorio, di sfruttamento dell’uomo e della natura, di emarginazione e discriminazione che è il capitalismo.
La situazione di crisi e propensione alla guerra del capitale stanno sempre più sottoponendoci, come proletari, a condizioni di miseria e sfruttamento maggiori, mettendoci nell’ impossibilità di soddisfare bisogni primari ed essenziali quali la casa, la cura, l’istruzione. Sempre più il controllo diventa capillare e le risposte, contro ogni forma di critica e lotta che rompa lo status delle cose, di tipo repressivo (basti vedere gli ultimi decreti sicurezza e gli attacchi alla libertà di sciopero).
Ma al tempo stesso, più forti e generalizzate sono diventate le contraddizioni che questo sistema genera e, anche se ancora troppo deboli e isolate, sempre più voci, qui come nel resto mondo, si stanno levando contro la miseria, la prepotenza e l’assoggettamento coloniale e imperialista (l’Africa lo sta urlando da tempo).
Sta a noi imparare ad ascoltarle e a leggerle, a raccoglierle per farle diventare una forza collettiva in grado di mettere mille granelli di sabbia negli ingranaggi del capitalismo, così come successo in altri periodi storici.
Campagna contro l’intitolazione a Ben Gurion del ponte di Crescenzago
Milano, 24 novembre 2023