IL LAVORO SI … LA CASA NO!
ovvero: serviamo per essere sfruttati, ma non quando rivendichiamo un bisogno
Il lavoro si, la casa no, è quanto ha sintetizzato un abitante dell’occupazione di via Fracastoro che, con la rete Ci siamo, rivendica la necessità ad avere una casa non solo per questa realtà di immigrati e immigrate, ma per tutti quei lavoratori e lavoratrici che con le loro attività per lo più precarie, in nero, con contratti a termine e senza garanzie contrattuali, sono interni e motore della stessa economia e produzione di ricchezza. Economia che attua anche in questa città, verso queste fasce di proletari e le figure più fragili e non produttive, politiche di espulsione e di sfruttamento.
La storia di Ci siamo ovvero della nostra comunità di lotta, è una storia lunga otto anni ed è fatta di occupazioni e sgomberi. Nell’ultima occupazione in via Fracastoro abitavano in una settantina di persone, nuclei familiari e singoli, provenienti dal Mali, Gambia, Marocco, Brasile, Perù, Costa d’Avorio, Palestina, Algeria, Tunisia, Nigeria, Togo, Liberia, Guinea Conakry. Lavoratori e lavoratrici stranieri/e impegnati principalmente nel campo dell’assistenza domiciliare, della logistica, della sicurezza, dei servizi.
Crediamo che la nostra storia sia paradigmatica e il riflesso delle politiche abitative sia a livello nazionale che locale verso le fasce più deboli e fragili. Una politica abitativa e sociale a favore degli interessi economici dei grossi gruppi immobiliari e finanziari, che privatizzata e mercifica il bisogno della casa.
1- L’occupazione come risposta.
È importante ribadire ancora una volta che, anche in assenza di politiche abitative attente ai bisogni dei proletari, le occupazioni, informali o rivendicate e sostenute dai movimenti cittadini di lotta per la casa rappresentano la soluzione alla vita in strada. Una necessità vitale che garantisce di non perdere tutto quello che si ha, ma di continuare a lavorare, portare i figli minori a scuola, vivere dignitosamente e progettare un futuro.
Oggi la pratica dell’occupazione, che rappresenta anche una forma di denuncia nei confronti delle migliaia di immobili privati e pubblici lasciati vuoti e al degrado, si trova difronte ad una repressione sempre più capillare. Basta guardare le nuove norme contro le occupazioni abitative (Direttiva Ministro dell’Interno 10 agosto 2023), che hanno attuato a Milano, così come in altre parti d’Italia, lo sgombero di diversi stabili occupati con lo scopo dichiarato di “tutelare la proprietà privata e ripristinare la legalità”.
Una legalità sempre più a difesa delle speculazioni immobiliari private che, in accordo con le amministrazioni pubbliche e i soggetti del terzo settore, stanno trasformando le città in base alle proprie esigenze di profitto, accerchiando i quartieri popolari, espellendone gli abitanti, devastando e saccheggiando anche dal punto di vista ambientale interi territori.
Una legalità che utilizza in modo ostentato la repressione per il ripristino di una sicurezza aleatoria trasformando un problema sociale in una questione di ordine pubblico. Ancor di più oggi, visto quanto prevede il DDL 1660 (Pacchetto sicurezza), in fase di approvazione definitiva, che mette in campo un armamentario normativo che aggrava le leggi già esistenti e ne prevede di nuove che allargano i reati punendo ogni forma di conflitto sociale, di lotta esistente o futura, anche pacifica.
2- Comune di Milano – Responsabilità pubbliche
Quella del Comune è una responsabilità ampia perché da oltre due anni, cioè da quando era stato emesso il bando per destinare l’edificio di via Esterle a luogo di culto (25 marzo 2022), gli abitanti, sostenuti dalla Rete solidale Ci Siamo, avevano denunciato quanto per loro era impossibile trovare una casa. Il tentativo era quello di mettere il Comune nella condizione di attuare politiche abitative in grado di offrire una abitazione dignitosa anche a loro, lavoratori stranieri con contratti brevi e a basso reddito.
Il Comune, al momento dello sgombero, pur avendo dichiarato di voler continuare a cercare delle soluzioni, non si è né presentato nel giorno dello sgombero né ha avviato successivamente alcuna interlocuzione con gli abitanti. In tal modo ha reso palese che l’incontro ottenuto dopo le diverse manifestazioni davanti al Comune e i presidi presso gli uffici comunali dell’Assessorato alla casa, era stato concesso solo perché si trattava di un immobile pubblico che andava consegnato alla Casa della Cultura Musulmana di via Padova per realizzare la prima moschea autorizzata di Milano.
Successivamente allo sgombero di via Esterle e una volta che gli abitanti si sono trasferiti nello stabile occupato di via Fracastoro 8, il Comune ha mostrato ancora disinteresse, come se il riconoscimento di un istanza che gli abitanti rappresentavano fosse svanito e la richiesta di non criminalizzare le occupazioni non riguardasse più l’ amministrazione comunale in quanto, l’immobile di via Fracastoro, di proprie proprietà di un privato, costituisse solo un problema di ordine pubblico di competenza eventualmente della Prefettura.
Il ripristino della “legalità” e il “disinteresse” dimostrato hanno reso ancora più difficili le
condizioni di vita all’ interno dello stabile, dove sono confluiti tutti gli abitanti provenienti dagli altri edifici sgomberati. Uno spazio ben presto congestionato per la presenza di circa 70 persone, diventato non idoneo a famiglie e bambini, a persone con problemi di salute ed anziani, che ha creato problemi gestionali importanti a causa dell’insufficienza di bagni, docce, di spazi abitativi dignitosi e la possibilità di messa in sicurezza che è stata la causa dell’avvenuto incendio.
Ancora una volta infatti l’ Amministrazione comunale si è disinteressata del caso solo perché l’immobile è privato e occupato; ha ribadito che i lavoratori stranieri che vi abitano non rappresentano una fragilità e dunque una priorità per il Comune e neppure che la ricerca di una soluzione al problema abitativo di queste persone rappresenti una richiesta di attenzione particolare, così come invece era stato sostenuto dalla vicesindaco Scavuzzo in una dichiarazione pubblica rilasciata il giorno dello sgombero dello stabile di via Esterle.
3- L’incendio
Da emergenza a problema di ordine pubblico.
La notte del 19 settembre c’è stato un incendio in una palazzina di via Fracastoro 8 dove abitavano circa settanta persone, lavoratori immigrati singoli e famiglie con minori.
La Protezione civile del comune di Milano, intervenuta per coordinare e assistere gli abitanti evacuati, ha comunicato che i nuclei familiari sarebbero stati accolti nella struttura comunale di viale Ortles e gli adulti singoli si sarebbero dovuti rivolgere al Centro Sammartini, dove li ha accompagnati con i propri mezzi.
Al Centro di via Sammartini 120, di fronte all’ esigenza dichiarata di trovare soluzioni per tutti gli abitanti, la funzionaria ha fatto presente che il servizio prevede prima incontri individuali e poi, sulla base di questi, delle soluzioni temporanee solo per le persone con particolari fragilità. Dopo una prima serie di colloqui conclusasi con la consegna di un elenco di strutture a pagamento a cui si sarebbero potuti rivolgere, gli abitanti hanno deciso di non muoversi dalla sala d’aspetto fino a quando non avrebbero ottenuto almeno una soluzione per la notte.
La funzionaria invece di adoperarsi per rispondere all’emergenza, dopo aver dichiarato che non c’erano più le condizioni per continuare il servizio, ha chiuso anticipatamente tutti gli uffici e fatto uscire gli operatori, lasciando aperta solo la sala d’aspetto.
Con questa scelta, l’emergenza si è trasformata in un problema di ordine pubblico gestito dalla Digos, che nel frattempo aveva raggiunto il Centro e svolto un ruolo di intermediario con la Protezione civile, la quale in tarda serata ha proposto come soluzione per la notte la palestra di via Cambini da loro allestita, dove hanno trovato pernottato 38 persone.
4- L’offerta comunale
“Soluzioni” ordinarie, temporanee e non per tutti “
La mattinata seguente gli abitanti sono stati riportati dalla Protezione civile al Centro Sammartini 120 e, nonostante la continua richiesta di interlocuzione con l’Assessorato al Welfare e Salute, la funzionaria del Centro Sammartini ha ribadito l’indisponibilità a un incontro per affrontare l’emergenza di una collettività.
Le soluzioni prospettate sono state quindi i colloqui individuali e dieci posti in due dormitori differenti più altri da verificare in Casa Jannacci. Soluzioni che, oltre a non risolvere il problema per tutti gli abitanti, erano solo per pochi giorni. Inoltre non era certa la possibilità che fossero garantite le esigenze di chi ha orari lavorativi notturni come rider, addetti alla sicurezza e alle pulizie e ancora meno certa la probabilità di una futura e stabile sistemazione abitativa.
Di fronte al muro di gomma da parte delle istituzioni, gli abitanti e gli attivisti della Rete solidale Ci Siamo hanno deciso di spostarsi in piazza Leonardo da Vinci, luogo simbolico di protesta e di lotta.
Qui hanno piantato delle tende. Una sistemazione di fortuna dove temporaneamente vivere e, al tempo stesso, rendere visibile e denunciare anche alla cittadinanza l’assenza di politiche abitative e l’indisponibilità a trovare soluzioni che non siano aleatorie e temporanee. Ma è stato anche rivolto un appello a tutte le realtà cittadine attive nella lotta a difesa degli interessi delle classi subalterne al fine di rafforzare le relazioni solidali.
5- La mobilitazione
Dalle tende in piazza a Casa Loca
Con le tende in piazza Leonardo è iniziato un confronto assembleare per continuare e rafforzare un percorso di lotta per la casa in cui la nostra esperienza come attivisti, lavoratori e lavoratrici migranti, si è messa in relazione con le lotte metropolitane e nazionali contro il DDL 1660 e in solidarietà attiva alla resistenza palestinese e anticoloniale. Consapevoli che l’intreccio di esperienze e percorsi di lotta uniti attorno ad obiettivi comuni possano contribuire a modificare i rapporti di forza affinché si creino le condizioni per cambiare lo stato delle cose presenti.
Da questo confronto e a maggior ragione in mancanza di alternative istituzionali, è maturata come soluzione alla vita in tenda, che non poteva oggettivamente continuare a lungo a causa delle condizioni climatiche, delle esigenze lavorative e dei problemi sanitari, la decisione di tornare a fare vivere lo stabile di Casa Loca sgomberato nell’agosto di quest’anno.
Uno sgombero avvenuto, come ha riportato Casa Loca, “… a seguito della denuncia della
proprietà, la Lambda S.R.L., facente parte del gioco di scatole cinesi del blocco di potere
economico della Pirelli, del gruppo Prelios e delle aziende collegate: i padroni del quartiere
Bicocca, alla periferia di Milano” … È importante ricordare che “Casa Loca è stato un luogo
simbolico per la città di Milano, … di occupazione e autogestione nato sulla scorta della solidarietà internazionalista, dell’autorganizzazione studentesca e delle lotte per i diritti delle e dei migranti … inoltre, la vicinanza con l’università Bicocca ha fatto sì che lo spazio fosse da sempre punto di riferimento per studentesse, studenti e personale dell’università stessa, in un quartiere di antica estrazione operaia.”
6- L’occupazione
A/R Casa Loca – Piazza Leonardo
Nei cinque giorni della rioccupazione di Casa Loca, lo spazio è stato attraversato ed utilizzato da differenti realtà e soggettività milanesi solidali che intorno alle tende di piazza Leonardo avevano rafforzato l’esperienza di Ci Siamo. È diventato così luogo di assemblee, cene, momenti condivisi, fino allo sgombero avvenuto il due ottobre con una forte presenza della Digos, di polizia e carabinieri.
Benché si fosse consapevoli di un probabile sgombero in tempi brevi, la rioccupazione di Casa Loca, oltre a rispondere all’esigenza di un posto in cui vivere, ha assunto un forte carattere simbolico sia per la sua storia politica e sociale, sia per le ragioni per cui era stata sgombrata precedentemente, legate a interessi privati e speculativi.
7- Il ritorno alle tende e l’interlocuzione con il Comune
Dopo lo sgombero di Casa Loca, dal due ottobre gli abitanti sono ritornati a vivere alle tende in piazza Leonardo da Vinci dove, anche a causa delle condizioni climatiche (13 giorni di pioggia intensa), resistono a quelle condizioni indignitose, nel fango e nell’umidità, in condizioni igieniche precarie e con problemi di salute sempre più frequenti, solo grazie alla solidarietà che si è creata intorno a loro.
Solo dopo 23 giorni dall’incendio, l’assessore alla sicurezza Marco Gramelli e l’assessore alla casa Giudo Bardelli si sono resi disponibili ad un incontro in Comune.
Nel corso dell’incontro gli assessori hanno dichiarato, a parole, una volontà e un impegno a trovare soluzioni vista la situazione di invivibilità nelle tende, ipotizzando una prima fase a carattere emergenziale, quindi temporanea, quale tampone verso una soluzione più duratura.
Han chiesto qualche giorno di tempo per valutare e verificare le possibili soluzioni.
A distanza di 10 giorni dall’incontro dell’undici ottobre, nessuna notizia né negativa né positiva è pervenuta, nonostante ripetute richieste di riscontro.
Quanto accaduto nel corso di questo percorso e di quanto sta accadendo alle persone
accampate in piazza Leonardo da Vinci in circostanze climatiche particolarmente difficili, con freddo e piogge abbondanti, condizioni igieniche e sanitarie basilari invivibili, è una
responsabilità che il Comune si deve assumere, a fronte, se non a parole, di risposte e soluzioni reali e fattibili che non sono mai arrivate e neanche ipotizzate.
Una responsabilità ancora più grave da parte di questa amministrazione in quanto, nel recente passato, di fronte all’incendio della Torre dei Moro e quelli di via Vasari e via Luxemburg, ha sostenuto gli abitanti sfollati stanziando ingenti fondi e individuando soluzioni abitative, ma anche agevolazioni fiscali.
Ci si chiede dunque qual è la ragione di questo disinteresse verso i lavoratori immigrati, se non quello di mantenerli in condizioni di precarietà, marginalità e sfruttamento, spingendoli a vivere in strada, in edifici dismessi o più lontano possibile dalla città.
È evidente che la vita nelle tende non è più accettabile e sostenibile, non solo per il fango e le condizioni igienico-sanitarie che comporta, ma perché lede la dignità delle persone.
Una dignità rivendicata, fin dalla sua nascita, da questa comunità di immigrati, che è stata il motore e la spinta per non vivere più nella paura e nascosti negli scantinati.
Una spinta che ha permesso per alcuni anni di avere un tetto sulla testa dove poter dare un
ordine alla propria vita, organizzarsi, sperimentare forme di socialità e mutualità, mettere a nudo le responsabilità delle politiche immigratorie dei nostri governi, frutto delle stesse logiche coloniali che condannano ad immigrare ed esercitano qui le stesse forme di dominio e sfruttamento.
Milano 23-10-2024 Rete solidale Ci Siamo